Articolo

Per la chiave del paradiso chiedere al Diavolo

13 Marzo 2021 / 18:25
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Scritto da Matteo Zanetti
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Per la chiave del paradiso chiedere al Diavolo

13 Marzo 2021/ 18:25
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Scritto da Matteo Zanetti

"Et metit la grapa?" Ricordo come fosse ieri, attorno al calore del tavolo dopo cena e del fumo delle tazzine di caffè la nonna che raccontava come un incubo quella salita, compiuta ormai una sessantina di anni fa: "Modona me che patì! Tacada a chèla corda compagn d'ü saiòt." E mentre lei raccontava tutta preoccupata l'ascesa, il nonno si girava verso di me con uno strano sorriso e sottovoce per non farsi sentire mi diceva: "A la pisaa de piӧ la corda de la tò nona." Io mentre me la raccontavano ero solo un ragazzino e non potevo capire cosa rappresentasse una salita del genere in quegli anni '50 o '60, dove si partiva carichi come muli dell'enorme peso dell'attrezzatura e l'esperienza era quella che era. All'epoca pionierismo era la parola d'ordine,quando la paura dell'ignoto la si sconfiggeva con la passione e la tenacia dello spirito. Oggi si conosce sempre tutto: difficoltà, sentiero, condizioni e, se non li si conoscono, si fa presto a farsi accompagnare da qualcuno che ne sa di più per una salita che, giustamente, punti al massimo della sicurezza possibile. Confrontando questi due modi di affrontare la montagna viene da pensare che sono le conquiste compiute da quegli animi forti del passato che ora permettono a molti di solcare certi luoghi e che i fortunati siamo noi. Uno sguardo un po' più critico, e forse malsano agli occhi della società odierna, può però vedere che ai giorni nostri quel senso pionieristico e quella sensazione di ignoto che costringevano l'animo ad essere forte, sono andate un po' perse e vengano mascherati da tutte le sicurezze di cui godiamo e, inevitabilmente, da un sovraffollamento atipico per una montagna come questa. Anni dopo quelle chiacchiere con i nonni le mie salite su quella cima sono sempre state contraddistinte da qualcosa che le rendeva uniche: la prima con due forti ragazzi ahimè probabilmente con meno di due ore di sonno alle spalle, ancora annebbiati dai fumi dell'alcol della sera precedente; la seconda con il compagno di sempre, dove abbiamo potuto godere di una mattinata di sole senza nuvole, preceduta da una giornata di temporali che ci aveva sparato addosso tuoni e fulmini in uno scontro a fuoco decisamente impari, ma che fortunatamente non ci chiese niente di più di una gran fatica e una gran paura; la terza salita era avvenuta nel cuore della notte, con solo un po' di riposo fuori dal rifugio a metà strada, dove solo buio e freddo ci fecero aprire gli occhi per ripartire e poi godere di un'alba stupenda a quote poco prevedibili. Di salite ne sono seguite altre ed il rapporto con lei non si è mai affievolito, ogni volta era sempre vivo il ricordo di quei racconti serali dei nonni. Questa volta però è stato diverso per colpa, o per merito, di una cosa chiamata inverno, dove il letargo della neve rende muta la montagna e sordo l'alpinista: il vero trucco sta nel saper ascoltare ogni minimo segnale. La risalita è silenziosa, le prime luci illuminano la conca sottostante la cima come un palcoscenico pronto ad ospitare lo spettacolo, dove gli attori sono pareti di roccia, creste scure e canali immacolati di bianco: raramente le pendici sono più eleganti della vetta e questa è una vetta rara. Guidati da flebili tracce nella neve e da profondi solchi nel cuore giungiamo alla parte finale dove le difficoltà si fanno più interessanti. Non abbiamo nessun alpinista esperto con noi e a guidarci è solo la passione per la montagna, siamo nelle sue mani. Ci osserva come un maestro mentre la saliamo ma non ci concede la sua fiducia, le sue condizioni per la salita nella parte alta sono impraticabili e non permettono di arrivare in cima. Dobbiamo rinunciare alla conquista, a pochi metri dalla vetta, ma vuoi per umiltà o debolezza non ne siamo sconsolati: come ogni sano rapporto saper ascoltare è fondamentale. Mi piace pensare che nonno fosse lassù in cima, con gli stivali pesanti ai piedi e la corda di canapa a tracolla, impaziente di potermi riabbracciare ma urlandoci coscienziosamente verso il basso: "Oggi non è il momento, non rischiare! Io resterò qui ad aspettarti, torna indietro!" Impossibile contraddirlo. Quel giorno siamo tornati a casa senza aver conquistato la vetta, ma ci portiamo nel cuore gli attimi inattaccabili dal tempo che passa, vissuti nel segno di un intimo rapporto con la montagna e con noi stessi. Quasi a premiarci di averla rispettata la montagna, o il nonno, ci regala una splendida discesa nella Piana di Valsecca, in un ambiente così spettacolare dall'essere indeciso se in discesa guardare gli sci o tenere alto lo sguardo per godersi il panorama. Siamo consapevoli che quando torneremo tutto sarà come prima, solo noi saremo diversi: più abili nel sapere ascoltare, più forti nella testa e nel cuore; tutte qualità che la montagna apprezzerà sempre. Il resto è amore per l'uomo e per i suoi limiti, immerso in una natura che di limiti non ne ha.